Alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia, Elisa di Leonardo Di Costanzo ha subito diviso la critica. Alcuni lo hanno salutato come uno dei film più maturi e coerenti del concorso, altri ne hanno sottolineato la lentezza e la difficoltà di coinvolgimento. Ciò che è certo è che il film non lascia indifferenti: si tratta di un’opera che, nel bene e nel male, costringe a confrontarsi con domande scomode sul significato della colpa e sulla possibilità del perdono.
Una storia senza scampo
Liberamente ispirato a un caso reale e a riflessioni criminologiche, il film racconta di una donna che ha ucciso la sorella e che, dopo la condanna, si trova in un carcere “modello” svizzero. Non c’è spettacolarizzazione del crimine: Di Costanzo concentra lo sguardo sul dopo, sulle conseguenze interiori di un gesto che ha distrutto una vita e ne ha marchiata un’altra. Il confronto con un criminologo diventa la miccia che riapre ferite e memorie, senza fornire soluzioni rassicuranti.
L’interpretazione di Barbara Ronchi
Il cuore del film è Barbara Ronchi. La sua prova non indulge mai in eccessi emotivi, ma costruisce un personaggio ambiguo, fragile e insieme spietato. Lo spettatore oscilla continuamente tra empatia e distanza, incapace di trovare un giudizio definitivo. È proprio questa sospensione a dare forza all’opera: non si tratta di assolvere né di condannare, ma di restare davanti all’abisso di un’anima spezzata.
Estetica della sottrazione
Di Costanzo si affida a una regia essenziale, quasi invisibile. La fotografia di Luca Bigazzi esalta spazi chiusi, luci filtrate, paesaggi alpini che sembrano specchi della coscienza. Il montaggio di Carlotta Cristiani lavora sui tempi lunghi, dilatando il ritmo fino a trasformarlo in una condizione psicologica. È un’estetica che rifiuta il pathos immediato e sceglie di restituire l’esperienza della colpa come claustrofobia, come sospensione.
Le opinioni contrapposte
Per alcuni, questo rigore è il vero pregio del film: Elisa è visto come un’opera adulta, che non concede al pubblico catarsi né facili identificazioni. Un cinema che preferisce interrogare piuttosto che consolare, mantenendo sempre una tensione morale e antropologica.
Per altri, invece, la stessa scelta diventa limite: la narrazione procede in maniera ellittica, con momenti in cui la tensione sembra smorzarsi e i personaggi secondari non trovano sufficiente spazio. Il rischio, segnalato da più parti, è che la forza drammatica si diluisca in un esercizio di stile.
Oltre la vendetta
Nonostante le divergenze critiche, resta evidente che Di Costanzo propone una riflessione di rara intensità sul rapporto tra giustizia, memoria e possibilità di trasformazione. Il film non suggerisce che la colpa possa essere cancellata, ma invita a guardarla da vicino, a misurarne il peso senza la scorciatoia della vendetta. È un cinema che non cerca consenso, ma che lascia tracce profonde in chi lo affronta con la disponibilità all’ascolto e al dubbio.
Un autore coerente
Con Elisa, Di Costanzo conferma il proprio percorso coerente: dal documentario alla finzione, ha sempre scelto storie marginali, situazioni sospese, personaggi intrappolati tra regole e desideri. Qui porta all’estremo questa cifra, con un film che non è né puro dramma giudiziario né psicologico tradizionale, ma un ibrido che esplora i confini del male quotidiano.
Cosa dicono gli altri
La critica internazionale si è mostrata variegata. Alcuni hanno parlato di un’opera radicale, capace di imporsi come una delle più dense e consapevoli viste al Lido: un film che lavora sull’interiorità con rigore quasi documentaristico e che restituisce un’immagine del male senza orpelli né indulgenze. Altri hanno elogiato la prova di Barbara Ronchi, considerata da molti una delle interpretazioni femminili più notevoli della stagione.
Non sono mancate, tuttavia, voci più scettiche: c’è chi ha trovato la narrazione eccessivamente rarefatta, incapace di mantenere costante la tensione, con una costruzione drammaturgica che rischia di perdersi nei silenzi. Alcuni hanno rimarcato anche il rischio di freddezza, notando come la distanza formale possa indebolire l’impatto emotivo.
Questo mosaico di reazioni dimostra che Elisa non è un film di facile fruizione, ma un’opera che divide, che stimola il confronto e che chiede al pubblico un impegno attivo: accettare di stare davanti a una storia che non offre pacificazione, ma che continua a lavorare dentro chi la guarda anche a distanza di tempo.
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