C’è un momento, nel buio compatto della sala, in cui tutto si ferma. Il respiro. Il battito. Il tempo. E quando accade, capisci di essere davanti a qualcosa che va oltre il cinema. È successo oggi, a Venezia, durante la proiezione di A House of Dynamite. Ed è stato travolgente.
Il nuovo film di Kathryn Bigelow – che segna il suo ritorno dopo anni di silenzio – è un thriller di potenza quasi astratta, capace di toccare le corde più profonde dell’inquietudine contemporanea. Un film che sembra costruito non solo per essere visto, ma per essere vissuto, attraversato, assorbito. Come un’allerta. Come un’esercitazione nucleare dell’anima.
Un film da festival, nel senso più alto e necessario del termine
La trama, ridotta all’osso, racconta di un missile sconosciuto in volo verso gli Stati Uniti. Manca l’identificazione, mancano le certezze, ma resta il conto alla rovescia. Quel che segue è un tour de force claustrofobico e densissimonei meandri del potere, tra comandi militari, bunker sotterranei, call criptate e sguardi che cercano risposte nel buio.
Ma non è la trama a fare la differenza. È la regia chirurgica, la tensione incisa nel ritmo, l'architettura narrativa fratturata, che ripercorre l’evento da più punti di vista, ribaltando continuamente la percezione.
Bigelow costruisce un film nervoso, iperrealista, eppure stilizzato. Ogni scena è un esercizio di contenimento, un accumulo lento di pressione che esplode solo alla fine – senza pirotecnia, ma con una precisione letale.
Una partitura di immagini e suoni
La mano di Barry Ackroyd alla fotografia si avverte tutta: camera sempre in movimento, luce radente, palette desaturata, orizzonti di cemento e metallo che ricordano la freddezza delle stanze dove si decide il destino del mondo.
Il montaggio di Kirk Baxter è un vero prodigio: tagli netti, improvvisi rallentamenti, sovrapposizioni temporali, una costruzione del tempo interiore che accompagna lo spettatore in un vortice mentale, più che visivo.
Il sound design, martellante e invisibile, costruisce un mondo parallelo di frequenze basse, allarmi distanti, voci che si sovrappongono, beep che si insinuano sotto pelle. Non è semplice ambientazione sonora: è linguaggio.
E la musica, composta da Volker Bertelmann, non accompagna, non commenta, non enfatizza: modella lo spazio emotivo, come un altro strato invisibile di tensione.
Il cast è straordinario, ma nessuno interpreta un "personaggio": sono tutti parte della macchina. Idris Elba riesce nell’impresa di rendere il potere vulnerabile, umano, scisso tra razionalità e panico. Rebecca Ferguson è pura forza controllata, un’icona che regge il film nei suoi momenti più ambigui. E Jared Harris, perfetto nel ruolo di coscienza logorata, è la voce del dubbio che nessuno vorrebbe sentire.
Ogni attore è misurato, mai sopra le righe, ma densissimo di tensione interna, come se il film stesso chiedesse loro di recitare con il respiro, più che con le battute.
Tra una decisione da prendere e un countdown che stringe, il film sorprende nel suo spazio emotivo più profondo: quello che si apre dentro le case, tra un genitore e un figlio, tra un marito e una moglie, tra chi comanda e chi deve proteggere. In mezzo al caos globale, A House of Dynamite riesce a ritagliare momenti di straordinaria intimità familiare.
Senza scivolare nel sentimentalismo, il film analizza le crepe, le distanze, le parole mancate e i gesti che tengono unita una famiglia anche nel momento peggiore, restituendo una dimensione umana al potere e alla paura. È in questi frammenti che si annida il senso più profondo del film: la vulnerabilità privata che resiste all’assurdo collettivo.
Il film non offre conforto né soluzioni. È un’allucinazione lucida, una finestra aperta su un mondo in cui la deterrenza non è più una garanzia ma una roulette. Il messaggio è chiaro: l’orologio dell’apocalisse non è un concetto astratto, è qui, ora, e siamo tutti parte del conto alla rovescia.
Eppure non è un film politico. È più vicino a una tragedia greca, dove ogni scelta comporta conseguenze inarrestabili. Una macchina narrativa perfetta che mette in scena l’impotenza umana di fronte al proprio stesso ingegno distruttivo.
Per me, A House of Dynamite è senza dubbio il miglior film visto finora a Venezia 82. Non solo per la qualità tecnica – che è altissima, impeccabile – ma per la capacità di parlare all’oggi, senza filtri, senza retorica, senza appigli.
È un film che si piazza esattamente dove deve stare: al centro della nostra ansia contemporanea, raccontandola con una freddezza che brucia più di ogni retorica. Ma anche con uno sguardo struggente sul privato, sul fragile tessuto che unisce le persone quando tutto il resto crolla.
Un film da festival, sì. Ma anche un film da tenere a mente quando torni a casa. E ti accorgi che, da qualche parte, una luce rossa sta ancora lampeggiando.
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