Mentre l’intelligenza artificiale diventa sempre più presente nei processi creativi, Hollywood si interroga su un futuro dove le storie potrebbero non avere più un autore umano. È l’inizio di una nuova era o solo un’illusione tecnologica?
Il paradosso narrativo
Una delle funzioni che per prime l’intelligenza artificiale ha cominciato a imitare con sorprendente efficacia è la scrittura. Dialoghi, soggetti, perfino strutture drammaturgiche complesse.
Eppure, proprio in un’industria costruita sulle storie, l’idea che una macchina possa “scrivere un film” solleva inquietudini, e non solo di ordine etico.
Durante lo sciopero degli sceneggiatori del 2023, uno dei punti più delicati fu proprio l’uso dell’IA da parte dei grandi studios. I sindacati temevano che l’intelligenza artificiale venisse usata per sostituire il lavoro umano, o almeno per ridurlo a un ruolo marginale di “correttore” di testi scritti da modelli linguistici generativi come ChatGPT o Claude.
Il timore non è infondato. Alcuni studios stanno già testando modelli in grado di generare pitch, logline e soggetti in pochi secondi. Netflix ha ammesso l’uso di IA per analizzare i copioni, suggerire modifiche e prevedere il successo commerciale di uno script. Ma chi decide se una storia “funziona”?
Chi ha il copyright di una storia scritta da una macchina?
Il problema si complica: negli Stati Uniti e in molti altri paesi, l’autore di un’opera deve essere umano per godere del diritto d’autore. Quindi, chi è il vero autore se una sceneggiatura è stata generata da un’intelligenza artificiale?
E se uno sceneggiatore usa ChatGPT per sviluppare un personaggio, una battuta o un colpo di scena, quella scena è ancora sua?
Alcuni autori stanno già firmando “manifeste” per chiedere trasparenza sull’uso dell’IA nei processi di scrittura. Altri sperimentano: da Paul Trillo a Jean Boîte Éditions, diversi registi e scrittori stanno realizzando opere co-firmate con l’intelligenza artificiale, dichiarandone apertamente l’uso.
Il fascino ambiguo della creatività artificiale
Non possiamo ignorarlo: l’IA può aiutare nella scrittura. È uno strumento potente per generare varianti, suggerire archetipi, risolvere blocchi narrativi.
Ma può anche appiattire lo stile, semplificare l’imprevedibile, produrre un tipo di racconto omologato e algoritmico.
Il rischio è che le storie perdano la loro parte più fragile e umana: l’errore, il dubbio, il silenzio. Tutti elementi che non si programmano, ma si vivono.
Un algoritmo sa raccontare il dolore della perdita? Forse sì. Ma lo sente?
Non un nemico, ma un interlocutore inquietante
Il futuro della sceneggiatura potrebbe non essere né interamente umano né totalmente artificiale. Potremmo assistere a una nuova figura professionale: il prompt-writer, una sorta di sceneggiatore che interroga, guida e struttura il lavoro dell’intelligenza artificiale, generando bozze intelligenti da rifinire.
Non è detto che sia un male. Ma cambierà radicalmente il concetto di autorialità.
Forse, più che chiederci se l’IA potrà sostituire gli sceneggiatori, dovremmo chiederci: cosa vogliamo da una storia? Una struttura impeccabile, o una voce autentica?
Conclusione: la macchina può scrivere, ma sa perché?
In un’epoca in cui ogni tecnologia sembra promettere efficienza e velocità, l’arte del raccontare storie potrebbe essere il nostro ultimo baluardo di resistenza creativa.
Forse, come diceva Godard, “una storia dovrebbe avere un inizio, una metà e una fine, ma non necessariamente in questo ordine”. E nessuna IA, per ora, sembra capace di capirne davvero il senso.
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